di Paolo Grillo
L’emergenza COVID ha costretto la giustizia penale a fare i conti con se stessa: uno dei suoi nodi più inestricabili, tanto da avere resistito al pettine fitto di tutte le possibili diavolerie normative, è quello della eccessività del carico giudiziario. Tema ricorrente, se ne parla praticamente da sempre. In due coniugazioni: al futuro per annunciare le mirabolanti riforme che dovrebbero risolvere il problema, e immediatamente dopo al passato per constatarne il misero fallimento. L’argomento è tornato di moda, ammesso che abbia mai cessato di esserlo: le restrizioni che hanno costretto le autorità giudiziarie a ridurre, quando non a rinviare del tutto, la celebrazione delle udienze per assicurare soltanto la trattazione dei processi più urgenti è la dimostrazione più autentica che il numero dei processi risulta costantemente altissimo. Il momento, allora, è quello giusto per riflettere se non sia il caso di industriarsi una buona volta per prospettare strade alternative alla trattazione necessariamente giudiziale dei procedimenti che riguardano i fatti “bagattellari”, così come si usa definirli. In questo senso, la prima occasione perduta è stata quella che ha portato all’introduzione, ventuno anni fa, del giudice di pace con competenza penale. Nel ventaglio delle regole procedurali che lo riguardano non si è tenuto conto che sono proprio i piccoli dissidi tra privati cittadini ad esprimere una carica di animosità tale da essere il più delle volte direttamente proporzionale alla modestia dei “fatti di causa”. Quando ancora l’ingiuria era un reato si disputavano accanite battaglie giudiziarie nelle quali avvocati, giudice e pubblico ministero dovevano, ciascuno per la propria parte, lanciarsi in appassionate esegesi dell’insulto o del gestaccio. Il tentativo di conciliazione, pur previsto dalla normativa del “processo di pace”, non sortisce – anche quando viene esperito con convinzione – quasi mai alcun effetto. E la lite intanto prosegue. Gli altri interventi normativi in tema di deflazione del contenzioso penale non hanno avuto migliore fortuna. Nel 2016, con due decreti legislativi (il n.7 e il n. 8), si è realizzata un’operazione di “civilizzazione” e “amministrativizzazione” di alcuni reati giudicati di minore rilievo. Due esempi valgano per tutti: il reato di ingiuria diventa un illecito civile tipico, gli atti osceni in luogo pubblico sono adesso puniti con una sanzione amministrativa. Questi interventi, così come quello di poco precedente in tema di declaratoria non punibilità per particolare tenuità del fatto, non hanno affatto risolto il problema: lo hanno soltanto spostato dalla sede giudiziaria penale a quella civile o amministrativa. Dove occorre guardare, allora, per tentare di assegnare alla competenza dei tribunali soltanto quei fatti che veramente meritano una risposta penale? Si è lungamente parlato, più in ambito accademico e a livello pratico quasi esclusivamente nel settore della giustizia minorile, di mediazione penale. Una strada alternativa e parallela a quella giudiziaria per ricucire il conflitto sociale da cui è scaturita la lite. E’ un percorso senza dubbio affascinante, al quale viene fatto anche un timido accenno proprio nella normativa processuale del giudice di pace, con una caratteristica particolare: all’esito di una mediazione ben riuscita non c’è nessuno che vince o che perde. Ci si crede poco, evidentemente, perché tra i tanti interventi normativi che hanno cercato di mettere pezze alla macchina giudiziaria non se ne conta alcuno che abbia provato a percorrere questa direzione. Forse, prima ancora di andare oltre, bisognerebbe chiedersi il perché di questa coriacea sfiducia in un meccanismo che, andando alla radice del conflitto, mirerebbe, una volta risolto, ad evitare soprattutto che lo stesso si riproponga nel futuro.