di Federica Marcenò
Rivista penale italiana – ISSN 2785-650X
Abstract
AIDS and HIV, between willful misconduct and criminal negligence
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L’AIDS (sindrome da immunodeficienza acquisita) è una malattia provocata dall’HIV, un virus che aggredisce il sistema immunitario umano; eppure è doveroso precisare che le persone che contraggono il virus HIV (definite “sieropositive”) non sono malate di AIDS, ma potrebbero diventarlo in assenza di cure adeguate. L’HIV è un virus che si trasmette attraverso lo scambio di fluidi corporei infetti in qualsiasi stadio della malattia; nello specifico sangue, liquido seminale, secrezioni vaginali e latte materno sono liquidi in grado di far veicolare rapidamente il virus. Tuttavia, la modalità più frequente di trasmissione dell’HIV è quella per via sessuale, poiché durante un rapporto non protetto vi è il massimo scambio possibile di fluidi corporei, soprattutto in presenza di circostanze aggravanti, quali ferite dell’apparato genitale, malattie veneree, sesso anale o forme violente di penetrazione [1]. Il contagio per via sessuale rappresenta, dunque, la modalità di trasmissione più comune del virus HIV e l’importanza di questo canale di contagio ed il diffuso allarme sociale da esso generato portano l’interprete a soffermare la propria attenzione sulla tipologia comportamentale, la quale risulta essere in grado di suscitare profondi spunti di riflessione in merito ai profili di stampo penalistico [2]. Si fa qui riferimento in particolare all’ipotesi dell’individuo sieropositivo e consapevole del proprio stato il quale, tenendo all’oscuro di ciò il partner sano, intrattiene con il medesimo o con altri un rapporto sessuale non protetto, contagiandolo [3].
I problemi sociali e giuridici conseguenti. Fatta questa premessa, uno degli aspetti più problematici del tema oggetto di tale indagine è la prova del cd. “nesso causale” [4], per cui l’aspetto cruciale della questione consiste nel dimostrare che il soggetto abbia contratto il virus HIV quale derivazione essenziale di quel singolo rapporto sessuale e non di altri, accertamento che diventa ancora più difficile nel caso in cui lo stesso conduca una vita sessuale mista o risulti comunque esposto a successive e diverse fonti di contagio quali, ad esempio, le emotrasfusioni [5]. Anzitutto, è noto come il metodo diagnostico utilizzato per ricercare la presenza di anticorpi HIV all’interno dell’organismo umano presenti oggi rilevanti margini di incertezza poiché, non solo non permette di scoprire l’identità dell’untore, ma neppure è in grado di delineare il decorso del virus stesso, tantoché la lunghezza del periodo di incubazione che si frappone fra il passaggio del virus e la possibile scoperta della sieropositività può estendersi fino a diciotto mesi. La verifica circa la sussistenza del nesso eziologico concerne poi non soltanto la riconducibilità del virus ad un determinato fattore contagiante, ma deve anche inevitabilmente avere attinenza con l’accertamento della contemporanea assenza di altre cause di trasmissione dell’infezione [6]. Le considerazioni appena svolte portano a ritenere accettabile l’opinione maggioritaria presente in letteratura, secondo cui l’Hiv-carrier potrebbe racchiudere il rischio attivato con la propria condotta entro i limiti consentiti utilizzando il condom o, in alternativa, mettendo al corrente il partner del proprio stato di salute [7].
I rapporti tra dolus eventualis e colpa. L’elemento soggettivo nel caso di specie. Il dibattito relativo all’individuazione del discrimen fra dolo eventuale e colpa cosciente si inserisce in un contesto che assume rilevanza tanto teorica quanto pratica [8]. Difatti, molti tentativi sono stati avanzati al fine di scardinare i reciproci confini del dolo e della colpa, con l’intento di individuare un parametro di distinzione idoneo a soddisfare le esigenze di accertamento e verifica dell’elemento psicologico [9]. Com’è noto, nel processo di imputazione penale il dolo costituisce la forma più grave di colpevolezza in quanto, agendo qui l’autore con volontà, qualsiasi bene protetto risulta essere aggredito in maniera più pregnante rispetto ad una azione [10]. Nello specifico, la struttura del dolo si incardina su due differenti elementi: la rappresentazione e la volontà da parte dell’autore. Mentre il primo si traduce in una “previsione” degli accadimenti che conseguono alla realizzazione della condotta, il secondo si radica invece nella “consapevole volontà” di realizzare il fatto tipico [11]. Fra le varie forme di dolo si ricorda il cd. dolo eventuale, che si configura allorquando l’agente vuole un determinato evento ma ne considera, come possibile, anche un altro, del cui verificarsi ne accetta il rischio, comportandosi, dunque, di conseguenza, anche a costo di configurarlo [12]. Ma il punto problematico relativo a tale forma di dolo riguarda piuttosto il confine fra esso e la c.d. colpa con previsione, poiché il dato psicologico della previsione di un evento non direttamente preso di mira dal soggetto si delinea come tale sia per il dolo eventuale che per la colpa cosciente [13]. Orbene, la cd. colpa cosciente si delinea quale forma aggravata di colpa, configurabile qualora il soggetto, essendosi in un primo momento rappresentata la possibilità di realizzazione dell’evento, in una fase successiva giunge alla “sicura fiducia” che l’evento non si verifichi [14]. In base a tali ricostruzioni, si giungerebbe così a fondare il più gravoso trattamento sanzionatorio sul puro fatto dell’iniziale previsione dell’evento, considerato che l’agente si determina a porre in essere la condotta avendo effettivamente percepito la regola cautelare violata. Da tali considerazioni emerge la giustificazione del trattamento aggravato previsto per la colpa con previsione [15]: la previa rappresentazione dell’evento rende infatti noto all’agente il rischio di produzione dello stesso ed il fatto che egli agisce ugualmente mostrerebbe una più marcata adesione al fatto da parte del soggetto. Proprio per tali problematiche poste alla base, la questione circa l’esatta delimitazione tra dolo e colpa è considerata «la più difficile e la più discussa del diritto penale» [16]. Invero, la ricerca di generazioni di giuristi ha apportato elaborazioni teoriche di notevole utilità, ma in grado di rischiarare soltanto parzialmente le “zone grigie” poste ai confini del dolo e della colpa [17]. Fatte queste premesse, in relazione al contagio da HIV a questo punto è opportuno ricordare le forti riserve critiche riguardo al paradigma punitivo accolto dall’orientamento della giurisprudenza di lingua tedesca, laddove ritiene sussistente il dolus eventualis di (tentata) lesione personale (pericolosa) nei confronti del cd. AIDS-carrier che intrattiene contatti sessuali occasionali [18]. Posto che le ipotesi in cui si configura il dolo intenzionale – ad esempio, Tizio decide di contagiare il partner per sadismo ovvero per odio verso l’umanità – sono estremamente rare, si tratta di stabilire allora i confini inferiori della responsabilità dolosa nei casi più diffusi, ove il portatore del virus non riveli la sua condizione per soddisfare i propri istinti sessuali, per timore di interrompere il legame o per ipotesi similari. Pertanto, la linea di delimitazione tra l’imputazione dolosa indiretta e quella (coscientemente) colposa deve essere rappresentata in seguito ad un’attenta analisi della situazione concreta; e così, nell’attività sessuale non protetta praticata dall’infetto Hiv, acquistano significato elementi diversi, quali la frequenza del rapporto, le modalità con cui avviene lo stesso, la presenza di microlesioni preesistenti nei soggetti coinvolti, l’eventuale adozione di precauzioni in grado di diminuire il rischio di contagio. Orbene, quando i rapporti sessuali non protetti restano singoli o comunque episodici, sembra corretto orientarsi verso l’esclusione del dolus eventualis; viceversa, qualora il numero dei rapporti non sia frequente ed il corriere del virus (consapevole del suo stato) non adotti alcuna misura precauzionale (in assenza di informazione del partner), si dovrebbe verosimilmente introdurre la sussistenza di una responsabilità dolosa “indiretta”, procedendo all’accertamento della rappresentazione da parte del positivo Hiv del contagio quale conseguenza della propria condotta e della sua accettazione dell’evento lesivo [19]. Secondo parte della dottrina, poi, non sembra legittimo configurare una responsabilità dolosa “indiretta”, in quanto, sebbene il rischio posto alla base della condotta risulti essere “non consentito”, può dirsi comunque “riconoscibile” da parte di un osservatore attento ed in possesso delle medie cognizioni intellettuali. Di conseguenza, la fiducia del soggetto agente in ordine alla mancata verificazione del contagio non può essere considerata “infondata”, cioè priva di una minima giustificazione razionale, e del resto l’assenza di qualsiasi comportamento volto a limitare il rischio di infezione (utilizzando, ad esempio, il condom) conferma l’esistenza di una piena accettazione, da parte del portatore del virus Hiv, dell’evento-contagio. Si potrebbe, infatti, ritenere che colui che accetta il rischio di contagiare il partner potrebbe mostrarsi del tutto indifferente rispetto alla futura sorte del medesimo, facendo dunque rientrare anche la possibilità del verificarsi dell’evento morte [20].
Può un singolo generare un’epidemia? Com’è noto, se per “malattia” si intende un’alterazione anatomica e funzionale dell’organismo, generale o locale a carattere evolutivo, per “epidemia” si considera invece quella malattia infettiva e diffusiva capace di colpire contemporaneamente un gran numero di persone e di diffondersi ulteriormente [21], identificandosi pertanto quale pregiudizio alla salute nei confronti di un indefinito numero di persone, pregiudizio che deve non soltanto interessare un determinato numero di persone, ma possedere, altresì, il carattere dell’ulteriore espansibilità verso un indefinito numero di individui [22]. Nel delitto di epidemia, in particolare, il bene offeso è quello della pubblica incolumità, anche se la caratterizzazione dell’evento in termini di ulteriore propagazione di una malattia che ha già colpito un numero considerevole di persone ha portato la giurisprudenza maggioritaria ad escludere la sussistenza dello stesso, quando la nascita e lo sviluppo della malattia si arrestano nell’ambito di un luogo circoscritto e le persone colpite sono state di numero assolutamente limitato [23]. L’epidemia deve essere prodotta tramite la diffusione di germi patogeni, diffusione che rappresenta il comportamento che l’agente deve tenere ai fini della configurabilità del delitto in esame [24]. In particolare, per “germe patogeno” si intende ogni microrganismo capace di generare una malattia; ne deriva, dunque, che, per espandere il germe, il soggetto ne deve averne, in origine, il “possesso” [25]. Tra la diffusione di germi patogeni e l’epidemia deve intercorrere poi un rapporto di causalità, che viene meno nel caso in cui intervengono cause sopravvenute da sole sufficienti a determinare l’evento (art. 41 c.p.) [26]. Per l’ipotesi dolosa del delitto di epidemia, struttura ed oggetto del dolo non creano particolari problemi, in quanto si presentano, rispettivamente, alla stregua della volontà e dell’evento sintomatico [27]. La volontà di determinare l’epidemia richiede alla base la consapevolezza di divulgare germi patogeni in relazione alla produzione del male e l’evento indicativo è rappresentato dal contagio di un certo numero di persone indeterminate, sorretto, altresì, dall’ulteriore diffusione del male verso altri soggetti [28]. Tuttavia, con riferimento alle varie forme del dolo, è necessario specificare che sorge qui qualche incertezza. Secondo parte della dottrina infatti, poiché il dolo sarebbe qualificato quale intenzione di determinare l’epidemia, si dovrebbe ammettere, quale unica forma di dolo ammissibile, quella del dolo intenzionale [29]. Per un altro orientamento, invece, tale riduzione è stata ritenuta illegittima, dal momento che anche il dolo eventuale risulta essere del tutto compatibile con la struttura del reato [30]. Per l’ipotesi colposa, invece, esclusa la volontà di cagionare l’epidemia, è necessario comprendere se risulta possibile delineare le astratte ipotesi di negligenza, imprudenza, imperizia, inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline [31]. Nello specifico, è necessario accertare se la divulgazione sia avvenuta a causa di tali fattori tramite germi idonei a sprigionare quell’epidemia. La regola prudenziale violata può identificarsi sia come regola sociale sia come norma giuridica e, affinché vi sia colpa, secondo i principi generali, oltre alla violazione della regola precauzionale, è altresì richiesta la prevedibilità dell’evento, insieme al superamento del rischio consentito. Nell’ambito di questa qualificazione, di conseguenza, il delitto andrebbe annoverato tra i “reati di pericolo presunto” [32]. Una recente opinione ritiene, invece, trattarsi di un “reato di pericolo comune”; in tal senso il notevole numero di persone colpite non viene in rilievo di per sé nella nozione di epidemia, bensì in quanto segno di divulgazione incontrollabile del male [33]. Il pericolo, invece, risulta essere connesso alla diffusività del male che caratterizza propriamente il delitto di epidemia.
Uno fra tanti. E vediamo un caso concreto. V.T. nel 2017 è stato accusato di avere dolosamente infettato numerose donne, dopo aver intrattenuto con le stesse relazioni sessuali non protette e, soprattutto, non menzionando il proprio stato di sieropositività. L’indagine ha preso l’avvio dalla denuncia di una ragazza, che aveva conosciuto l’imputato tramite chat, mezzo per lui rilevante per sedurre ed adescare le sue prede. Tuttavia successivamente si comprese che in realtà risultavano essere più di una trentina le vittime infettate da HIV da V.T., tra queste anche un bambino, figlio di una ragazza con cui lo stesso aveva portato avanti una breve relazione mentre lei era incinta. Nell’ottobre del 2017 la Corte d’assise di Roma ha condannato l’imputato a 24 anni di reclusione, perché ritenuto colpevole del reato di lesioni gravissime, spuntando dunque l’originario capo d’imputazione per il reato di epidemia dolosa. La pubblica accusa infatti aveva chiesto per l’imputato la pena di 30 anni di reclusione, sostenendo che i fatti inquadravano piuttosto il reato di epidemia, in considerazione del fatto che egli si era sempre mostrato fedele al suo obiettivo, quello di contagiare un numero indefinito di persone, e le sue condotte avevano costituito “un vero e proprio attentato alla salute pubblica (…) un’epidemia scientemente provocata” [34]. Tale decisione è stata poi confermata dalla Corte di cassazione, per la quale nel caso di specie il delitto di epidemia dolosa non risultava configurabile per l’assenza dell’evento tipico “che si connota, come hanno precisato le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione [35], per diffusività incontrollabile all’interno di un numero rilevante di soggetti e quindi per una malattia contagiosa dal rapido sviluppo ed autonomo entro un numero indeterminato di soggetti e per una durata cronologicamente illimitata”. Dopo anni di dubbi, l’appello-bis è riuscito a chiudere il cerchio di questa vicenda, aggravando nuovamente ed in via definitiva la posizione dell’imputato, disponendo la riforma della pena che, nei 24 anni di reclusione irrogati, fissa la responsabilità dello stesso anche per gli ultimi quattro casi che sembravano potersi “salvare” [36].
[1] A. Coluccia, AIDS e legislazione d’emergenza: la liberalizzazione della vendita delle siringhe in Francia, in Riv. it. med. Leg., 1989, 793 s.
[2] E. Altavilla, Delitti contro la persona, Milano, 1992, 36 s.
[3] M. D. Grmek, Aids. Storia di un’epidemia attuale, Roma, 1989, 278 s.
[4] S. Canestrari, La rilevanza penale del rapporto sessuale non protetto dell’infetto HIV nell’orientamento del Bundesgerichtshof, in Foro it., 1991, IV, 151 s.
[5] S. Canestrari, G. Fronasari, Nuove esigenze di tutela nell’ambito dei reati contro la persona, Bologna, 2000, 70 s.
[6] S. Canestrari, cit., 152, il quale, pure rilevando le notevoli difficoltà di ordine probatorio, non ritiene impossibile l’accertamento in oggetto.
[7] P. Kunz, Aids und Strafrecht: Strafbarkeit der HIV-Infektion nach schweizerischem Recht, in Rev. pen. sui., 1990, 51 s.
[8] F. Curi, Tertium datur. Dal common law al civil law per una scomposizione tripartita dell’elemento soggettivo del reato, Milano, 2003, 278 s.
[9] G. De Francesco, Dolo eventuale e dintorni: tra riflessioni teoriche e problematiche applicative, in Neuroscienze, razionalità decisionale ed elemento soggettivo nei reati economici, Padova, 2015, 120 s.
[10] G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2017, 57 s.
[11] G. Marinucci, E. Dolcini, Manuale di Diritto Penale. Parte Generale, Milano, 2017, 298 s.
[12] G. Fiandaca, E. Musco, cit., 380 s.
[13] E. Musco, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974, 222 s.
[14] G. Cerquetti, Il dolo, Torino, 2010, 89 s.
[15] Cass. Pen., sez. I, 18 settembre 2002, n. 591.
[16] H. Welzel, Das deutsche Strafrecht. Eine systematische Darstellung, Berlin, 1969, 69.
[17] Fra le teorie maggiormente accreditate sul tema, risulta doveroso menzionare la cd. “teoria della probabilità”, secondo la quale si avrebbe dolo eventuale qualora l’evento verificatosi fosse stato previsto dall’agente come conseguenza probabile della propria condotta, e la cd. “teoria della possibilità”, per cui tale forma di dolo si configurerebbe, invece, qualora l’agente abbia concretamente previsto la possibile verificazione dello stesso, a differenza della colpa cosciente, in cui l’evento viene percepito solo astrattamente (S. Tassi, Il dolo, Padova, 1992, 13 s.). Tuttavia, entrambe tali teorie non menzionano la componente volitiva, la quale consente, invece, di creare quella correlazione tra autore ed evento, richiesta alla base del giudizio di colpevolezza (E. Di Salvo, Forme di dolo e compatibilità tra dolo eventuale e tentativo, in Cass. pen., 1996, 2196). Per tali motivi prevalenti si sono rivelate le cd. “Formule di Frank”, che si contraddistinguono per la valorizzazione della cd. “volontà dell’agente”. Qui al giudice viene affidato il compito di verificare quale sarebbe stato il comportamento del soggetto nel caso in cui fosse stata certamente prevista, nella sua prospettiva, la verificazione dell’evento. Ove si riesca ad affermare che il soggetto avrebbe ciononostante agìto, l’elemento soggettivo dovrebbe inquadrarsi, dunque, nel dolo eventuale. La cd. “teoria volontaristica” costituisce un modello di analisi dell’elemento volitivo dell’agente integrativo, da considerare congiuntamente agli altri indicatori comportamentali ricavabili dall’intero sistema probatorio.
[18] S. Canestrari, cit., 149 s.
[19] S. Canestrari, La definizione legale del dolo: il problema del dolus eventualis, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, 933.
[20] A. R. Castaldo, L’imputazione oggettiva nel delitto colposo d’evento, Napoli, 1989, 238 s.
[21] S. Ranieri, Manuale di diritto penale, Padova, 1962, 562.
[22] K. Majno, Commento al codice penale italiano, Torino, 1922, 327 s.
[23] Trib. Bolzano, 13 marzo 1979, in Gir. Merito, 1979, II, 945.
[24] A. Gaito, voce Medicina scientifica e criminologia (profili sostanziali), in Dig. disc. pen., Torino, 2005, 251.
[25] V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, Torino, 1981, 364.
[26] B. Battaglini, voce Incolumità pubblica, in Nuovo dig. it., Torino, 1938, 985.
[27] A. Nappi, Codice penale, in Giur. sist., Torino, 1984, 543.
[28] A. Gaito, cit., 251.
[29] B. Battaglini, cit., 987 s.
[30] A. Nappi, cit. 547 s.
[31] S. Canestrari, Dolo eventuale e colpa cosciente: ai confini tra dolo e colpa nella struttura delle tipologie delittuose, Milano, 1999, 49.
[32] S. Ranieri, cit. 596.
[33] R. Guadagno, voce Epidemia, in Enc. For., Milano, 1966, 484.
[34] Roma, sieropositivo contagiò decine di partner: Talluto condannato a 22 anni in appello, in http://www.repubblica.it.
[35] Sent. 11 gennaio 2008, n. 576.
[36] A. Di Prisco, Il caso Talluto. L’untore dell’HIV condannato a 24 anni: la vicenda giudiziaria dal 2014 ad oggi, in Ius in itinere, 9 marzo 2021.