di Ciro Cardinale
Rivista penale italiana – ISSN 2785-650X
Non può invocare la scriminante della “legittima difesa domiciliare” di cui all’art. 52 c.p. chi detiene un’arma illegittimamente. Lo ha deciso la Corte di cassazione penale (sez. I, sentenza 27 aprile 2021, n. 15851, qui pubblicata in allegato), respingendo il ricorso proposto dall’imputato avverso la sentenza d’appello, che aveva confermato la sua condanna di primo grado per omicidio volontario ed escludendo così l’applicabilità dell’art. 52 c.p. invocata dalla difesa. Occorre per prima cosa ricordare che la legittima difesa, prevista e disciplinata in forme diverse presso tutti gli ordinamenti giuridici, si colloca tra le cause di giustificazione che escludono la configurabilità del reato. Il suo fondamento si rinviene nel riconoscimento ai privati cittadini di una limitata autotutela, in deroga al monopolio dello Stato dell’uso della forza per reprimere i reati, in tutte quelle situazioni nelle quali esso non è in grado di assicurare una pronta ed efficace protezione dei beni giuridici individuali. Nel nostro ordinamento la legittima difesa è disciplinata dall’art. 52 c.p., che rende non punibile “chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”. I commi successivi stabiliscono poi: “nei casi previsti dall’articolo 614, primo e secondo comma (cioè nei casi di violazione di domicilio, nda), sussiste sempre il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere:
- a) la propria o la altrui incolumità;
- b) i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d’aggressione.
Le disposizioni di cui al secondo e al quarto comma si applicano anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale.
Nei casi di cui al secondo e al terzo comma agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere, con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone”.
La norma è stata novellata due volte, prima dalla legge 13 febbraio 2006, n. 59, che ha introdotto la “legittima difesa domiciliare”, inserendo nel testo i commi 2 e 3 ed una specifica presunzione, anche se non assoluta, di proporzione tra offesa e difesa quando l’aggressione sia avvenuta nei luoghi di privata dimora o in altri ad essa equiparati, poi dalla legge 26 aprile 2019, n. 36, che ha aggiunto solo la parola “sempre” al comma 1, un nuovo comma 4 ed il rimando a tale comma nel comma 3, con l’obiettivo di restringere il potere valutativo della magistratura. Ma nonostante tali modifiche, la struttura fondamentale della normativa sulla legittima difesa non è stata stravolta e le interpretazioni giurisprudenziali sul “nuovo” testo dell’art. 52 c.p. hanno comunque sempre collegato le due presunzioni, “quella di proporzione dell’uso dell’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo, e quella inerente alle stesse condizioni di sussistenza della causa di giustificazione, di cui al comma 4, alla presenza di un’offesa ingiusta che rechi pericolo attuale all’incolumità di colui che reagisce e/o di altri, oppure anche a beni patrimoniali, ma, in quest’ultimo caso, solo allorché vi sia contestualmente un pericolo di aggressione alle persone che renda necessaria l’immediata reazione difensiva” (così la sentenza in commento. V. per tutti anche Cass. pen., sez. III, 10 ottobre 2019, n. 49883). Per cui, a differenza del “comune sentire” diffuso o delle affermazioni di qualche politico spinto da captatio benevolentiae verso i propri elettori, anche nel “nuovo” art. 52 la “facoltà eccezionale di autodifesa consentita al privato nell’ambito del proprio domicilio o in luoghi ad esso equiparati, secondo un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, presuppone la sussistenza delle precondizioni della necessità ed inevitabilità della difesa e dell’attualità del pericolo dell’offesa non altrimenti contenibile, il cui rigoroso accertamento è rimesso all’apprezzamento del giudice e non può essere preventivamente ritenuto” (sempre la sentenza annotata). Venendo ora al caso in esame, la Corte di assise d’appello, in riforma della decisione emessa dal G.U.P. del Tribunale, aveva condannato un uomo per il reato di omicidio volontario e per i reati ad esso connessi di cui agli art. 23, commi 3 e 4 della legge n. 110/75 (detenzione e porto di armi clandestine, ndr) e 648 c.p. (ricettazione, ndr). Aveva raccontato l’imputato che la vittima, ex pugile, si era recata a casa sua per chiarire una vicenda personale, in quanto in precedenza tra i due c’erano già state delle liti, con tentativi di aggressione da parte della vittima, che anche quella sera la vittima aveva provato ad aggredirlo, colpendolo al volto, e che durante la colluttazione lo stesso imputato aveva estratto una pistola, esplodendo all’indirizzo della vittima tre colpi, uno dei quali mortali, invocando pertanto la “legittima difesa domiciliare”. Dall’istruttoria dibattimentale i giudici avevano però escluso la sussistenza dei requisiti per l’applicabilità dell’art. 52 c.p., non potendo l’imputato sostenere che la vittima si fosse introdotta nel suo domicilio contro la sua volontà, in quanto era stato lo stesso imputato ad invitare la vittima in casa, aprendogli la porta, imputato che aveva pure usato un’arma clandestina, acquistata pochi giorni prima del fatto e detenuta illegittimamente, per colpire la vittima più volte. Ricorrendo in Cassazione contro la decisione di merito, la difesa dell’imputato ha ritenuto opinabile l’interpretazione dell’art. 52 c.p. compiuta dai giudici d’appello, in quanto la legittima detenzione dell’arma costituirebbe un requisito non menzionato nell’originario testo della norma e mai richiesto neppure come condizione applicativa dalla dottrina e dalla giurisprudenza formatasi su di essa, denunciando anche una disparità di trattamento tra il cittadino che può richiedere un regolare porto d’armi e colui che, trovandosi in condizioni di marginalità sociale, non ha tale possibilità, chiedendo così che venisse sollevata anche la questione di costituzionalità dell’art. 52 per violazione dell’art. 3 Cost. Ma la Corte suprema ha respinto tale tesi difensiva, confermando la ricostruzione dei fatti compiuta dai giudici di merito, affermando che non è applicabile la scriminante della “legittima difesa domiciliare” di cui all’art. 52 c.p. nel caso in cui l’arma non sia detenuta legittimamente, e concludendo per il necessario raccordo tra i commi 1 e 2 della norma, che non è stato modificata neppure dalle novelle del 2006 e del 2019, per cui anche in presenza di un’arma legittimamente detenuta l’applicazione della scriminante della “legittima difesa domiciliare” è sempre subordinata alla verifica della sussistenza delle due “precondizioni” della necessità ed inevitabilità della difesa e dell’attualità del pericolo dell’offesa non altrimenti contenibile. Quanto poi alla dedotta questione di costituzionalità, i giudici romani l’hanno parimenti respinta, ritenendo che non può essere messa in discussione la scelta discrezionale del legislatore, che non va ritenuta irragionevole né incostituzionale quando si disciplinano in modo diverso due situazioni differenti, quali quella di chi detiene un’arma regolarmente denunciata e quella di chi, invece, detiene un’arma clandestina.