di Avv. Salvatore Sansone
Sulla condotta posta in essere dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio che integri il reato di corruzione propria perchè contraria ai doveri d’ufficio (ex art. 319 c.p.) esiste una variegata disamina dottrinale dell’elemento oggettivo.
Il problema dibattuto riguarda l’individuazione dell’atto che integri con la sua consumazione il reato ex art. 319 c.p.
E’ opinione comune che l’atto d’ufficio non vada inteso nel senso stretto dell’atto amministrativo da valutare in termini di legittimità o meno ma piuttosto nella gamma dei comportamenti illeciti effettivamente o potenzialmente riconducibili all’incarico di pubblico ufficiale[1]
La dottrina più affermata ritiene comunque che sebbene la contrarietà ai doveri d’ufficio dell’atto vada individuata in relazione ai beni del buon funzionamento e imparzialità della p.a., il reato di corruzione non possa integrarsi con la violazione di un generico dovere di correttezza, onestà, decoro ma sia necessaria una condotta che comunque integri l’illegittimità dell’atto posto in essere alla stregua della disciplina dei vizi dell’atto amministrativo. In senso conforme la giurisprudenza (Cass. Pen. Sez. VI 14 maggio 2009 n. 30762) secondo cui sono atti contrari ai doveri d’ufficio non solo quelli illeciti o illegittimi ma tutti quelli che pur risultando formalmente regolari, per consapevole volontà di chi li ponga in essere (p.u. o incaricato di p.s. ) prescindano dall’osservanza di doveri istituzionali espressi in norma di qualsiasi livello ivi compresi i doveri di correttezza e imparzialità.
Recenti orientamenti giurisprudenziali assumono un maggiore rigore valutativo per cui la contrarietà ai doveri di ufficio sarebbe configurabile anche riguardo al compimento di atti di elevata discrezionalità quando risulti omessa o non adeguata la valutazione comparativa tra interessi pubblici e privati. (Cass. sez. VI n. 17972 del 31.10.2018)
In altre parole integra il delitto di corruzione propria la condotta del pubblico ufficiale che dietro promessa o elargizione di un indebito compenso, esercita i poteri discrezionali riconosciutigli rinunziando ad una imparziale comparazione degli interessi in gioco al fine di raggiungere un esito predeterminato anche quando questo risulti coincidere ex post con la condotta o la scelta posti in essere. (cfr. Cassazione Penale n. 39020 del 2017)
Il disvalore della condotta va individuato nella “vendita” della discrezionalità che è accordata al P.U.
Resta fortemente dibattuto il problema di individuare quali siano gli estremi e le condizioni per qualificare un atto discrezionale come contrario ai doveri d’ufficio.
La linea di discrimine nella valutazione della condotta è qui particolarmente sottile.
Occorrerà accertare se la discrezionalità dell’atto posto in essere contro ai doveri di ufficio sia emanato in violazione di regole cui il P.U. doveva attenersi circa una bilanciata comparazione degli interessi in campo per la tutela del pubblico interesse.
Il problema è quello che NON è previsto con chiarezza predeterminata il complesso di queste regole genericamente richiamate.
Compete al P.U. una vasta gamma di scelte discrezionali che tuttavia egli deve compiere nel rispetto dei precetti della logica e dell’imparzialità sempre sottesi all’azione amministrativa. (cfr. M. Romano, pag. 170 e ss. “I delitti contro la P.A.”)
Su tali presupposti lo spazio di valutazione che viene lasciato all’interprete sul rispetto di tali regole rende insidiosissimo il rischio che il P.U. si esponga a condotte valutate come di corruzione propria.
Nell’esperienza processuale, infatti, non è raro che il beneficio anche NON personale che il pubblico ufficiale procuri con la sua condotta venga ingiustamente a essere qualificato come corruzione proprio per lo spazio di libera interpretazione lasciato all’autorità inquirente o al giudice circa la violazione di regole non meglio individuate e riguardanti la sua azione amministrativa discrezionale.
Può infatti verificarsi che la condotta posta in essere non abbia come contropartita un compenso in denaro ma piuttosto consista in un beneficio logicamente coerente anche con l’interesse pubblico che la più rigorosa interpretazione giurisprudenziale valuta comunque come integrante il reato di corruzione propria[2].
E’ il caso del sindaco o dell’ assessore, pubblici amministratori, che al fine di tutelare interessi e utilità alla loro azione politico – amministrativa comunque coincidente con l’interesse pubblico, si trovino a fare scelte “discrezionali” che siano sommariamente valutate come non rispettose delle regole della logica, dell’imparzialità e del buon andamento dell’amministrazione senza che sussista una concreta e diretta contropartita.
In tale contesto è assolutamente sbilanciato il metro di valutazione a disposizione del giudice che espone la condotta del p.u. ad una qualificazione non predeterminata o rigorosamente inquadrabile.
Resta allora un solo modo capace di riequilibrare questo spazio interpretativo sostanzialmente indeterminato : la prova evidente dell’esistenza dell’accordo corruttivo.
Deve sussistere la prova, non deduttivamente ricavata, che il compimento dell’atto contrario ai doveri d’ufficio sia stata la causa della prestazione di utilità e della sua accettazione da parte del pubblico ufficiale (Casss. sez. VI 15 maggio 2008 n. 34417).
In questo caso la possibilità di una “libera” valutazione delle regole cui il P.U. doveva attenersi si ridimensiona decisamente lasciando prevalere nella individuazione degli elementi costitutivi del reato la condizione essenziale : l’esistenza del “pactum sceleris”. (Cass. sez. VI 15.05.2008 n. 34415)
Avv. Salvatore Sansone
ANNOTAZIONI
[1] cfr. Pagliaro “Principi” parte speciale pag. 218 e ss. M. Romano I delitti contro la p.a. i delitti dei p.u. Giuffrè 2006.
[2] “Integra il delitto di corruzione propria la condotta del pubblico ufficiale che, dietro elargizione di un indebito compenso, esercita i poteri discrezionali rinunciando ad una imparziale comparazione degli interessi in gioco, al fine di raggiungere un esito predeterminato, anche quando questo risulta coincidere, “ex post”, con l’interesse pubblico, e salvo il caso di atto sicuramente identico a quello che sarebbe stato comunque adottato in caso di corretto adempimento delle funzioni, in quanto, ai fini della sussistenza del reato in questione e non di quello di corruzione impropria, l’elemento decisivo è costituito dalla “vendita” della discrezionalità accordata dalla legge”
Cass. n. 39020/2017).