Il dovere di motivazione della sentenza è adempiuto, ad opera del giudice di merito, attraverso la valutazione globale delle deduzioni delle parti e delle risultanze processuali
, non essendo necessaria l’analisi approfondita e l’esame dettagliato delle predette ed è sufficiente che si spieghino le ragioni che hanno determinato il convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo, nel qual caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (C., Sez. VI, 4.5.2011, S.N., in Mass. Uff., 250105).
L’esposizione dei motivi di fatto e di diritto che conducono il giudice all’adozione del decisum costituisce requisito essenziale della sentenza: ogni valutazione deve essere fondata sulle deduzioni delle parti contrapposte e sulle risultanze processuali, in modo tale che dall’apparato argomentativo emerga con chiarezza il percorso logico seguito dal giudicante ai fini del decidere.
La motivazione, completamente muta di fronte ad una specifica richiesta di parte, vizia di nullità l’intera sentenza???
La risposta non può che essere: DIPENDE!
Se i motivi della soluzione adottata dal giudicante possono intendersi logicamente contenuti ed indirettamente svolti nelle considerazioni e nelle ragioni esposte nel corpo della sentenza, il problema non si pone.
Nel caso inverso – e dunque qualora tale deduzione indiretta non operi -, la sentenza parrebbe nulla per violazione dell’art. 546, comma primo lett. e), c.p.p..
Il commento in esame prende le mosse da una sentenza di merito resa dal Tribunale di Palermo, con la quale il decidente non spendeva parola alcuna in merito alle ragioni per le quali riteneva non attendibili le prove contrarie evidenziate dalla difesa.
Due giovani donne venivano tratte a giudizio per rispondere del delitto di tentato furto in concorso fra loro, poiché si impossessavano di alcune confezioni di salmone per un valore complessivo poco superiore alla centinai di euro.
La difesa nel rassegnare le proprie conclusioni, chiedeva emettersi declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131-bis c.p..
Il Giudice dimenticava del tutto di dissertare sull’offensività del reato contestato, argomentando esclusivamente in merito alla sussistenza dell’elemento oggettivo e soggettivo del reato stesso.
Nel richiedere la declaratoria di non punibilità ai sensi dell’art. 131-bis c.p. non si contesta in alcun modo che il fatto sia tipico, antigiuridico e colpevole, piuttosto si chiede che non venga punito chi lo abbia commesso perché in concreto ritenuto di scarsa offensività.
Nulla quaestio, infatti, in merito alla sussistenza del reato: le donne venivano beccate “con le mani nel sacco” – o meglio “nel salmone”.
Il decidente, nell’assolvere all’obbligo di motivazione, avrebbe dovuto, pertanto, sì disquisire gli elementi tipici del reato di furto, ma avrebbe altresì dovuto a dibattere sul perchè il fatto contestato non potesse considerarsi come “tenue”.
Non si può far altro che attendere il secondo grado di giudizio per conoscere le sorti di tale “stravagante” sentenza.
Monica Rita Messina